Ritagli da una biografia

Appunti da una conversazione rimasta aperta, impressioni “mosse” su un regista nomade sedentario, forse possono raccontare, seppure come tracce, la storia personale e professionale di Sergio Maifredi, regista teatrale.
Buio. Silenzio. Sipario. Il teatro non è stata una luce al centro di un palco da raggiungere, ma un buio in cui calarsi per tirare fuori forme, strutture, storie. Scovato in fondo a una scala in uno scantinato, il teatro per Sergio Maifredi è stato inizialmente un luogo altro: “Al Teatro Laboratorio (a Genova negli anni ’80) si arrivava percorrendo una scala buia che scendeva e portava in una stanza ancora più buia e un po’ misteriosa.
Il teatro era trasgressione. Era superare un limite, era andare verso il buio, uscendo dal conforto della luce del quotidiano”. Un luogo in cui non riconoscersi e non essere riconosciuto, in cui apprendere e affinare strumenti intorno a un’idea, che potesse applicarsi al palcoscenico: la regia. Prima in senso letterale per creare spettacoli di prosa, più tardi la regia sarà modus operandi con cui modellare eventi spettacolari fuori scala; griglia in cui incanalare pensieri, attraverso cui architettare eventi, dare corpo a stagioni, rassegne, festival.

Tra rigore e determinazione, tra senso pratico e lucida visionarietà da palcoscenico, alla continua ricerca di testi originali e di una drammaturgia non consueta, eppure classica, sono trascorsi più di trent’anni: gli inizi, il lavoro in Islanda, gli spettacoli nordici (Isbjorg, Nara livet, Signorina Giulia, Io sono il Maestro), gli spettacoli tedeschi (Mercedes di Thomas Brash, Notte Araba e La Donna di un tempo di Roland Schimmelpfennig), la lunga convivenza accanto a Tonino Conte al Teatro della Tosse, il teatro fuori del teatro in grandi spazi - la Diga Foranea, i Forti e il centro storico di Genova - mobilitando un pubblico numeroso e spesso protagonista. Alle spalle qualche convinzione mai tramontata: “l’attore è un palombaro, tu regista stai in superficie a decifrare segni”. Oppure: “Il più grande libro di regia è Il Principe di Machiavelli: occorre traghettare ogni massima dalla politica al teatro”. Due libri da leggere prima di ogni regia: Lo spazio vuoto di Peter Brook e La lanterna magica di Ingmar Bergman. E sul fronte dei grandi incontri quello con l’italianista Franco Croce Bermondi, con il drammaturgo Giuseppe Manfridi; con Pietro Marchesani docente di letteratura polacca, e più recentemente con Janusz Wiśniewski direttore del Teatr Nowy a Poznań in Polonia.

A un tratto, dopo tutto questo, è arrivato per Maifredi il tempo del nomadismo: il teatro è ritornato al valore di un’essenziale idea, “un paradigma organizzativo”, un’applicazione da attivare per creare uno scarto all’interno di modelli pre-definiti, fossero parole, spazi, o anche gruppi di persone: “Un mese prima non ti conosci. Un mese dopo ti abbracci sudato gioendo per un risultato raggiunto insieme.
In un mese ci si è odiati, amati, baciati, insultati, per davvero, per finta, per un minuto, per sempre”. Dapprima c’è stata la libertà assoluta con il progetto Teatri Possibili Liguria - di recente rinominato Teatro Pubblico Ligure – dove mettere insieme attori intorno ad azioni e parole ha coinciso con una serie di iniziative tra cui I Dialoghi sulla rappresentazione, I Frantoi dell’Arte - “spremiture di idee” - il Festival degli Scali a mare, il Festival Grock (a Imperia), la lettura integrale dell’Odissea in scenari naturalmente spettacolari con interpreti disposti ad accogliere gli elementi esterni nel loro recitato. Essere nomade ha significato poter essere impegnato in tempi e su spazi diversi seppure con una meta sempre ben a fuoco e un obiettivo da raggiungere scolpito in una fitta rete di appuntamenti, incontri, accordi, in un’agenda disposta ad accogliere nella stessa settimana Roma, Bari, Poznań, Genova.

È stato dunque il tempo della residenza al Teatr Nowy in Polonia in compagnia di Pirandello, Goldoni e Fellini e di un sistema teatrale e culturale del tutto nuovo da imparare da un gruppo di attori polacchi.
È stato il tempo dell’ideazione, progettazione e curatela di due mostre intorno al teatro: Tutto il teatro in un manifesto. Polonia 1989-2009 (Palazzo Ducale, 2009) e Yves Klein. Judo e Teatro - Corpo e Visioni (Palazzo Ducale, 2012) intorno al blu di Yves Klein - uomo e artista. Durante il tempo del nomadismo, Sergio Maifredi è stato anche molto altro o meglio anche altrove: quattro anni a Barletta in Puglia, cinque al Teatro Vittoria di Roma.

Da tempo questa sua esperienza, che sfugge da tutte le parti, sempre rispondendo però a un moto centripeto estremamente puntuale, Maifredi vuole tradurla in una serie di immagini a cui aggiungere poche ma significative parole. Ne abbiamo parlato e riparlato. Nella calura estiva, una prima volta. Più avanti in una serie di interviste. Raccogliendo materiali, note di regia, pensieri su anni di esperienza intorno al palcoscenico. Inseguendo un’idea semplice, quasi banale: “un buon curriculum vitae non parte mai dall’inizio, ma dalla fine”. Di fronte a un caffé, al telefono o attraverso Skype.
Ci incontriamo ancora per mettere a punto alcune parti nodali, verificare “compiti”, intervistare compagni e compagne di viaggio, colleghi e colleghe di questa o quella fase della carriera. Ricordi fugaci, letture, locandine, fotografie, nomi di artisti, di scuole, di registi e drammaturghi. Arriva una storia mai lineare, onestamente accidentata, che procede per accumulo ma sempre più lontano dal disordine, perché mai lasciata scorrere a caso, sempre ricondotta a un punto, con una sferzata o come per abile destrezza, e trasformata da fiume di parole e idee, quasi sempre poetiche e gocciolanti tenacia, in scelte non sempre pienamente calzanti, non sempre in linea con il suo ‘io’, ma piuttosto aderenti a un progetto e fedeli ad esso. Passaggi chiave si parlano nonostante distanze geografiche, culturali, temporali. Così improvvisamente, un altro modo di ripercorrere questa storia emerge: “Struttura del volume spaziale, tematica, visiva. Rifiuto della cronologia. Determinazione di una dimensione spaziotemporale stratificata del racconto; narrazione come scena: con entrate e uscite e sovrapposizione orchestrata e precisa di pochi ma essenziali personaggi, oggetti, luoghi”.
E allora a ritroso dal recente al più remoto passato. In Polonia è regista residente. A Barletta inventa un cartellone teatrale per un teatro cittadino, l’unico, che deve rispondere ad un pubblico molto vario. A Roma, al Teatro Vittoria è alla direzione organizzativa di uno dei teatri della capitale in cui si affollano le più diverse proposte artistiche. A Genova: le origini, la formazione, il Teatro della Tosse, Teatri Possibili Liguria prima, il Teatro Pubblico Ligure poi, il ruolo di consigliere al Teatro dell’Opera, il Carlo Felice.
Nella storia di un teatrante, mi pare, i fatti non si allineano mai, di preferenza, piuttosto che adattarsi a un prima e un dopo il discorso si fa percorso, come su un palcoscenico la parola tramite l’attore passa da essere silenzio in movimento a voce immobile. Prendendo a prestito il titolo di un celebre lavoro dello storico Carlo Ginzburg, si seguono Il filo e le tracce. Vero falso finto si percorre quanto la memoria trattiene: finzione, immagine, idea di vissuto. Lascio che Sergio improvvisi. Gli do qualche spunto qua e là, lo lascio scivolare, perdersi in un percorso in cui rintracciare testimonianze involontarie della sua storia, qualche volta anche storiche.
Là, emergono fattori ricorrenti in intrecci adiacenti: questo suo modo di intendere la regia, questo fare il teatro ma anche fare con il teatro, o pensare attraverso il teatro, architettando scenari anche là dove non c’è parte dunque il più lontano nel tempo possibile, nel buio di uno scantinato, su uno scalo a mare, dove tutto si può immaginare ma solo se disposti a “tagliarsi i ponti alle spalle”. Ecco da dove parte il nomadismo sedentario di Sergio Maifredi: da un suo continuo scartare dentro il presente, collocando alle spalle tutto quanto non immediatamente adatto alla scena del nuovo spettacolo, come un mucchio di vecchie scenografie da riutilizzare e vecchi costumi da ripensare, ogni luogo è uno spazio vuoto da vestire di drammaturgia.
Questo catalogo è dunque un primo ritratto per frammenti, quasi Polaroid: scatti sovrapposti, forse persino mossi, per trattenere tanti ruoli, luoghi, momenti. Tante tracce che restituiscano le contraddizioni della figura severa e conservatrice di Sergio Maifredi, accanto al suo lato morbido, aperto e dialogico, quel suo fare amichevole seppure all’interno di convinzioni ferree, quel suo essere immobile eppure nomade. C’è un prima? E c’è un dopo? Ci sono, certo, tappe e mappe e ci sono agende dove si consuma l’autobiografia del regista nomade: Barletta, Roma, Genova, Milano, Varsavia, Polonia, Roma, Barletta, Genova e, ancora, Polonia. In una bulimia di idee che trovano quasi sempre pace in un formato praticabile (sostenibile per costi e potenziale successo), Sergio Maifredi è un nomade senza valigie, che semina storie, spettacoli, incontri, nuovi progetti. In tasca solo i dialoghi di una nuova drammaturgia da studiare; la soluzione per spostare i limiti del palcoscenico ancora un po’ più in là; uno spettacolo convincente da mettere in un cartellone; quello da provare a tavolino con attrici e attori o da perfezionare con tecnici e collaboratori.
All’inseguimento di intuizioni e incontri seminali, fare un lavoro sul passato con Sergio, ha qualcosa di profondamente sbagliato nei presupposti: «In genere butto via tutto. Ogni anno butto via tutto ciò che posso. Ho fatto tanti traslochi nella mia vita. E anche quella è un’occasione per buttare via tutto». Un’idea quasi definitiva di non lasciare tracce sembra emergere da questa affermazione. Eppure da qualche parte, su una delle sue scrivanie ideali, Sergio ritrova con sicurezza: Riflessioni sul teatro di Jean Louis Barrault e i libri di Umberto Albini. Di queste letture ha una visione che oscilla tra l’utilitaristico e lo scaramantico: “sono manuali, contengono linee guida e regole, ma sono anche i migliori compagni ogni volta che si deve intraprendere una nuova avventura”.

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